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Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento individuale
Data: 08/07/2004
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 81/04
Parti: Telecom Italia SpA / Francesca P.
LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - COMPORTO


Il caso posto all'esame della Corte d'Appello di Bologna è reso particolare dal fatto che riguarda un licenziamento intervenuto proprio in coincidenza con una modifica del contratto collettivo in materia di "periodo di comporto" ed, in particolare, con l'introduzione del diritto (avvenuto anche ad opera del CCNL Federmeccanica) ad un prolungamento del periodo di diritto alla conservazione del posto di lavoro a favore del lavoratore che "alla data di scadenza del comporto breve abbia in corso una malattia con prognosi pari o superiore a tre mesi". Il lavoratore era stato licenziato all'inizio dell'anno 2000 avendo superato il 365° giorno di assenza per malattia (comporto breve) quando, alla data del licenziamento, aveva già totalizzato 42 giorni di durata. Alla scadenza dell'ultimo certificato di malattia (pochi giorni dopo) non si era più curato di far certificare la prosecuzione dello stato di malattia non essendo a conoscenza delle nuove disposizioni contrattuali. Successivamente, peraltro, il proprio medico curante certificava la persistenza dello stato ansioso depressivo a causa del quale era stato, in precedenza, assente per malattia, e sulla base di tale diagnosi il dipendente impugnava il licenziamento avanti al Tribunale di Reggio Emilia, evidenziando come fosse stata la stessa datrice di lavoro a mettersi nelle condizioni di non essere più destinataria delle certificazioni di malattia, e richiedendo una consulenza tecnica per accertare che nel periodo compreso tra la data del licenziamento e la scadenza del trimestre dall'inizio dell'ultimo certificato sussisteva una malattia impeditiva della prestazione lavorativa. Ciò doveva rilevare, a parere della difesa del lavoratore, in quanto il riferimento alla prognosi della malattia non impediva che la norma contrattuale collettiva fosse applicabile anche ai lavoratori che avessero superato i tre mesi di malattia continuativa con più certificazioni, non ostando a ciò alcun riferimento contrattuale ad una sola certificazione medica. Il Tribunale aderiva parzialmente a tale impostazione, affermando che per il passaggio automatico dal comporto breve al comporto lungo fosse necessaria la conoscenza delle due parti del rapporto della realizzazione del particolare evento protetto e che, ai fini di tale conoscenza, apparisse funzionale non già la durata effettiva della malattia, bensì la prognosi del medico chiamato a certificare lo stato di malattia, con la precisazione che "l'unitarietà della prognosi non era affatto esclusa dalla sua formulazione mediante successive certificazioni caratterizzate dal presentare tra loro soluzioni di continuità temporale". Ciò nonostante respingeva il ricorso ritenendo, anche in base alle risultanze della CTU, che l'effettività di una malattia non inferiore a tre mesi non potesse ritenersi sufficientemente provata. Anche la Corte d'Appello di Bologna, con la sentenza in epigrafe, confermava la legittimità del licenziamento. Dopo aver richiamato la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia (Cass. n. 5413/03; n. 9037/01) e l'art. 2110 cod. civ., che prevede determinati eventi come cause legittimamente impeditive della prestazione lavorativa, sottraendole quindi alla disciplina generale in materia di contratti (art. 1256 e 1464 cod. civ.) nonché al regime limitativo della facoltà di recesso del datore di lavoro (legge n. 604/1966 e art. 18 legge n. 300/1970) ha evidenziato come il comma primo della detta norma riversi sul datore di lavoro il rischio della perdita della controprestazione, in quanto configura una fattispecie legale di impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, che è riferibile alla persona del lavoratore, ma a lui non imputabile. Peraltro il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (V. Cass. n. 5413/03; n. 7047/03). La Corte d'Appello di Bologna non ha ritenuto che il caso di specie rientrasse nella nuova previsione della disciplina contrattuale, ritenendo tutelate dalla stessa solo le malattie "in atto" nella fase conclusiva del comporto breve la cui prognosi, comunicata al datore di lavoro, sia non inferiore a tre mesi. Rispetto alla tesi recepita dal primo giudice "in forza della quale l'unitarietà della prognosi non è esclusa dalla sua formulazione mediante successive certificazioni" (accolta in via meramente ipotetica) la Corte fa discendere dal principio secondo cui il datore di lavoro può recedere dal rapporto non appena il lavoratore supera il periodo di conservazione del posto previsto dal CCNL, il seguente corollario: "qualora il dipendente intenda far valere il prolungamento del periodo di comporto, rimane onere a suo carico dimostrare il verificarsi delle condizioni di fatto che hanno dato luogo all'insorgenza del diritto al prolungamento del comporto" e quindi il lavoratore licenziato avrebbe dovuto "continuare ad inviare al datore di lavoro la certificazione di malattia, proprio allo scopo di notiziarlo che il superamento del comporto era dipeso da una patologia lunga, con prognosi pari o superiore a tre mesi". L'affermazione di tale principio apre quindi qualche spazio in tutte quelli ipotesi in cui le malattie lunghe (ultratrimestrali) siano composte, come quasi sempre accade, da prognosi per periodi più brevi, poi prolungate senza soluzione di continuità: in tale ipotesi sembrerebbe quindi possibile (ed utile per il lavoratore eventualmente licenziato) continuare ad inviare al datore di lavoro eventuali rinnovi di periodi di malattia anche in caso di intervenuto licenziamento, salvo verificare - all'esito del periodo complessivo di assenza ininterrotta per malattia - se il superamento del comporto era dipeso da una patologia con prognosi complessivamente superiore ai tre mesi, seppure frammentata da certificati medici di più breve durata. Sarebbe importante che su tale specifica problematica si ottenessero altre pronunce da parte della magistratura




Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento individuale
Data: 15/09/2004
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 167/04
Parti: ASER + FNSI + Marco G. / Poligrafici Editoriale SpA
TUTELA OBBLIGATORIA - IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO CON OFFERTA DELLA PRESTAZIONE - REVOCA DEL LICENZIAMENTO - NON ACCETTAZIONE DELLA REVOCA CON OPZIONE PER L'INDENNITA' RISARCITORIA: AMMISSIBILITA'. - SUCCESSIVO LICENZIAMENTO PER PRESUNTA ASSENZA INGIUS


Una lavoratrice impugnava un licenziamento disciplinare nullo per violazione dell'art. 7 legge n. 300/70 offrendo contestualmente la prestazione lavorativa. La società datrice revocava il licenziamento ma la dipendente manifestava la sua volontà di non accettare la revoca optando per l'indennità risarcitoria di cui all'art. 8 legge n. 604 del 1966. La società ignorava tale comunicazione, confermava la revoca, rinnovava l'invito a riprendere servizio e successivamente licenziava nuovamente la lavoratrice stante la sua assenza asseritamente ingiustificata. Il Tribunale di Rimini riteneva che l'offerta della prestazione non potesse essere considerata accettazione, sia perché atto a contenuto dichiarativo rappresentante la volontà della lavoratrice di voler adempiere la prestazione, sia perché non contenente alcuna proposta negoziale, sia perché precedente alla formale dichiarazione di revoca dell'atto di recesso. Conseguentemente dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società al pagamento di un'indennità risarcitoria di tre mensilità. Proponeva appello la società, ma la Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado, ribadendo le tesi già esposte dal primo giudice. Quanto alla natura dichiarativa dell'offerta della prestazione lavorativa, la Corte richiama il conforme orientamento del Supremo Collegio, secondo cui l'atto di costituzione in mora, ancorché deve essere fatto per iscritto, rappresenta un mero atto giuridico non negoziale, che una volta compiuto produce gli effetti di cui all'art. 1221 cod. civ. (Cass. n. 10090/98; n. 8711/93; n. 6245/87). Essa quindi "non è idonea ad integrare una proposta contrattuale, né un'anticipata accettazione di una revoca di un licenziamento, per altro non ancora espressamente portata a conoscenza della lavoratrice, né, tanto meno, una rinuncia preventiva all'opzione per l'indennità risarcitoria". Richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di revoca nell'ambito di applicazione dell'art. 18 (Cass. n. 8943/02; n. 10238/98 ed altre) e in merito alla possibilità, nell'ambito della tutela cosiddetta obbligatoria di richiedere, da parte del lavoratore, il pagamento dell'indennità risarcitoria qualora il rapporto non si ripristini, senza che rilevi quale sia il soggetto e quale sia la ragione per cui ciò si verifichi (Cass. n. 2842/02; n. 12442/98; v. anche Corte Cost. n. 194/70 e n. 44/96) la Corte d'Appello sottolinea che "la riassunzione ex art. 8 legge n. 604/66 - a differenza della reintegra ex art. 18 legge n. 300/70 - determina la ricostruzione ex nunc del rapporto di lavoro, sicché l'offerta datoriale di riassunzione corrisponde alla proposta contrattuale di un nuovo rapporto, che deve essere accettata dal lavoratore secondo le regole generali sulla formazione dei contrattis




Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento individuale
Data: 17/08/2004
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 350/04
Parti: Angelo D. / Engines Engineering S.p.A.
LICENZIAMENTO ONTOLOGICAMENTE DISCIPLINARE: APPLICABILITA’ DELL’ART. 7 STATUTO DEI LAVORATORI – OPZIONE PER L’INDENITA’ SOSTITUTIVA DELLA REINTEGRA – OBBLIGO DEL RISARCIMENTO DEL DANNO FINO ALL’EFFETTIVO PAGAMENTO – PRINCIPIO DELLA SOCCOMBENZA NELLA CONDA


La Corte d’Appello di Bologna conferma, in un ennesimo caso di licenziamento “per mancanze”, il suo consolidato orientamento sulla natura ontologicamente disciplinare di un licenziamento che trova la sua motivazione in presunte inottemperanze alle disposizioni impartite da un superiore. Nel caso di specie il collegio, confermando sul punto la pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia, giudice di primo grado, non ha ritenuto potessero considerarsi contestazioni le comunicazioni scritte della società datrice di lavoro che, pur esponendo con vivacità alcune doglianze, non denotavano in alcun modo la volontà di attivare una procedura disciplinare. La contestazione disciplinare infatti, secondo la Corte, pur non dovendo necessariamente essere analitica, deve rivestire il carattere delle specificità e contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare il fatto o i fatti nei quali sono stati ravvisati infrazioni disciplinari, raffigurando l’addebito nella sua materialità. Il licenziamento di cui è causa è stato conseguentemente ritenuto illegittimo per violazione dell’art. 7 della legge n. 300/70 per difetto di valida preventiva contestazione disciplinare. Per quanto concerne le conseguenze sanzionatorie, in presenza di un’opzione del lavoratore a favore dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, la Corte d’Appello puntualizza che secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 11609/03; n. 12514/03) l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 legge n. 300 del 1970 si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, e non già con la semplice dichiarazione del lavoratore di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione. “Ne consegue che fino a quando permane l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare, egli è tenuto al risarcimento del danno cui il lavoratore ha parimenti diritto, posto che il citato art. 18 comma quinto attribuisce al lavoratore la facoltà di optare per l’indennità sostitutiva, fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto dal quarto comma, e che il diritto a far valere quale titolo esecutivo la sentenza che, nel disporre la reintegrazione del lavoratore licenziato, ha attribuito a titolo risarcitorio le retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento a quella della riassunzione, non viene meno per effetto della dichiarazione di opzione per le quindici mensilità comunicata al datore di lavoro, sino a quando quest’ultimo non abbia eseguito la suddetta prestazione” . La sentenza dei giudici d’appello si discosta invece da quella di primo grado sul punto della liquidazione delle spese legali, che il Tribunale di Reggio aveva compensato in ragione di una presunta condotta lavorativa del dipendente “ostinata e litigiosa, ai limiti dell’ostruzionismo e l’adozione di un comportamento certo legittimante il licenziamento..”. Secondo la Corte, a causa dell’insanabile vizio procedurale del licenziamento, non è stato possibile accertare nel merito l’esatto svolgimento dei fatti e, quindi, stabilire se il recesso fosse o meno assistito dalla giusta causa o da un giustificato motivo: le diverse “manifestazioni di opinioni personali del giudicante … in mancanza del necessario e completo accertamento dei fatti, non hanno alcun fondamento probatorio e … quindi non sono altrimenti utilizzabili, anche al solo scopo della statuizione delle spese. Poiché la domanda proposta dal lavoratore è risultata pienamente fondata - essendo stato il rapporto di lavoro bruscamente ed illegittimamente interrotto a seguito del non corretto esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro - in applicazione del principio di soccombenza di cui all’art. 91 primo comma c.p.c. La Corte ha posto a carico della società le spese di entrambi i gradi del giudizio




Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento individuale
Data: 16/08/2005
Giudice: Varriale
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 236/05
Parti: Oscar L. / INPS
DEMANSIONAMENTO – ORDINANZA DI REINTEGRA NELLE MANSIONI - INTERVISTA CRITICA RILASCIATA AD UN QUOTIDIANO – UTILIZZO DI DOCUMENTAZIONE AZIENDALE - SUCCESSIVO LICENZIAMENTO – ILLEGITTIMITA


Una dipendente di un istituto di credito che a seguito di demansionamento aveva chiesto ed ottenuto un’ordinanza di reintegra in mansioni equivalenti dal Tribunale del lavoro di Reggio Emilia, ritenendo il proprio datore inottemperante al provvedimento del magistrato aveva segnalato la propria vicenda alla Commissione per le pari opportunità presso il Ministero del lavoro ed aveva rilasciato un’intervista ad un giornale con esposizione dei fatti ed apprezzamenti sul comportamento della banca che la medesima riteneva offensivi; accusandola di ciò, e di aver prodotto in giudizio, durante il procedimento cautelare, documenti aziendali riservati, la società la licenziava. Il Tribunale di Reggio Emilia, ritenendo i fatti posti in essere giustificabili come reazione ad un fatto ingiusto altrui (ravvisato dalla macroscopica dequalificazione) proprio in relazione all’attenuante della provocazione, e che il possesso dei documenti non potesse ritenersi un’indebita appropriazione, aveva escluso la configurabilità di un giustificato motivo di licenziamento. La sentenza, che affrontava anche altre numerose e complesse problematiche, era oggetto di reciproci atti d’appello: prima da parte della dipendente, successivamente da parte dell’azienda, il cui gravame autonomamente proposto veniva considerato appello incidentale (cfr. Cass. 12.12.2001 n. 15687; Cass. 16.3.2002 n. 3045; Cass. 24.1.1995, n. 792; Cass. 4.6.1993, n. 6242). La Corte d’appello, dopo aver respinto alcune domande della lavoratrice e verificato che l’esame di alcune questioni (come quella inerente la sussistenza del demansionamento) era precluso per mancanza di impugnazione, ha esaminato la legittimità del licenziamento, riconoscendo, in astratto, che il licenziamento disciplinare può essere determinato anche da comportamenti estranei alla prestazione professionale, che, in relazione alla loro adeguata consistenza e censurabilità, costituiscano violazione degli obblighi di fedeltà all’impresa, ovvero della buona fede integrativa del contenuto contrattuale del rapporto di lavoro, implicante un leale comportamento verso il datore di lavoro (Cass. 15.1.1997, n. 360). I giudici di secondo grado hanno però ribadito che la valutazione della gravità del fatto non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. 9.9.2003 n. 13188; cfr. pure, tra le tante, Cass. 10.1.2003 n. 237; Cass. 28.10.2000 n. 14257; Cass. 29.10.1999 n. 12197; Cass. 23.12.1997 n. 12986) ai moventi della condotta e alle particolari circostanze della sua realizzazione (Cass. 4.12.1995 n. 12484), al comportamento tenuto (prima e dopo la violazione) dal datore di lavoro e dal dipendente (Cass. 4.5.1985 n. 2815). A questo si aggiunga che “le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datore di lavoro, specie nell’esercizio di diritti sindacali, non possono costituire giusta causa di licenziamento in quanto espressione di diritti costituzionalmente garantiti o, quantomeno, di libertà di critica” salvo che il comportamento non si traduca in un atto illecito, quale l’ingiuria o la diffamazione ((Cass. 22.10.1998 n. 10511; cfr. pure Cass. 24.5.2001 n. 7091; Cass. 8.1.2000 n. 143; Cass. 16.5.1998 n. 4952; in tema di diritto di critica del dipendente v. anche Cass. 25.2.1986 n. 1173). Nella valutazione del caso di specie la Corte d’Appello ha ritenuto che il complessivo tenore delle dichiarazioni rese dalla lavoratrice al quotidiano siano rimaste nell’abito di un commento della vicenda che la aveva riguardato, anche considerando che l’intervista rilasciata si era contrapposta all’ingiusto demansionamento attuato nei suoi confronti dalla banca. Per quanto concerne la produzione in giudizio di documenti, i giudici d’appello hanno confermato il più recente indirizzo della Suprema Corte secondo cui “al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda” (Cass. 4.5.2002 n. 6420; cfr. pure Cass. 7.7.2004 n. 12528). La Corte ha infine osservato, in merito all’eccepito aliunde perceptum, che la statuizione del Tribunale concernente la liquidazione del risarcimento ai sensi dell’art. 18 legge n. 300/1970, “non è stata impugnata dalla Bibop Carire, che ha sollevato detta questione solo con la memoria difensiva depositata in relazione all’appello avversario e successivamente al deposito del proprio atto di gravame, quando ormai aveva consumato il proprio diritto di impugnazione in ordine ai capi della sentenza che le erano sfavorevoli (cfr. Cass. 12.7.2004 n. 12826; Cass. 28.1.2004 n. 1616; Cass. 11.7.2003 n. 10937; Cass. 5.3.2003 n. 3286, Cass. 24.5.2001 n. 7088; Cass. 8.2.2001 n. 1805)”




Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento individuale
Data: 27/11/2006
Giudice: Schiavone
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 124/06
Parti: Poste Italiane SpA / Antonio B. + 7
LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO COMPORTO – GIORNI NON LAVORATIVI: COMPUTABILITÀ – SUCCESSIVA IMPUTAZIONE A INFORTUNIO SUL LAVORO DI UN PERIODO RITENUTO DI MALATTIA: RILEVANZA – ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO.


CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA 27 novembre 2006 n. 124/06 (Est. Schiavone)

Pasqualina G.. / Bormioli Luigi SpA

LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO COMPORTO – GIORNI NON LAVORATIVI: COMPUTABILITÀ – SUCCESSIVA IMPUTAZIONE A INFORTUNIO SUL LAVORO DI UN PERIODO RITENUTO DI MALATTIA: RILEVANZA – ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO.

Art. 2110 Cod. Civ.

Art. 7 legge n. 300/70

Art. 53 CCNL Chimici (Vetro)

Una dipendente licenziata per superamento del periodo di comporto impugnava il recesso avanti al Tribunale di Parma, contestando in particolare il computo delle giornate ritenute utili ai fini del calcolo (373 giorni nell’ultimo triennio, quindi oltre i 360 previsti dalla contrattazione) sotto due profili: il primo, per avervi compreso anche i giorni non lavorativi (sabati, domeniche, festivi); per non aver considerato che, sia pure successivamente al licenziamento, l’INAIL aveva ritenuto ascrivibile ad infortunio sul lavoro un periodo di 17 giorni prima ritenuto di malattia comune. Il Tribunale respingeva la domanda e la lavoratrice proponeva appello, che veniva accolto dalla Corte d’Appello di Bologna.

Invero quanto al primo profilo i giudici di secondo grado condividono l’opinione del primo giudice, richiamando il principio giurisprudenziale secondo cui ove la disciplina contrattuale non contenga esplicite previsioni di diverso tenore, devono essere inclusi nel calcolo del periodo di comporto anche i giorni festivi e comunque non lavorativi (compresi quelli di fatto non lavorati, ad esempio per uno sciopero) che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell’episodio morboso, con la precisazione che solo il ritorno in servizio rileverebbe come causa di cessazione della sospensione del rapporto, dovendosi provare la guarigione relativamente ai suddetti giorni e l’immediata ripresa della malattia nei giorni successivi (cfr. Cass. n. 21385/04; n. 13816/00; n. 1467/97; n. 7405/94). Dissente invece dal Tribunale la Corte rispetto alla circostanza che il periodo di 17 giorni era stato dapprima ritenuto di malattia comune dalle deliberazioni INPS ed INAIL, mentre solo successivamente – di ben dieci mesi – al licenziamento l’INAIL mutava il proprio orientamento assumendo come causati da infortunio sul lavoro i giorni che venivano in considerazione. Evidenziano infatti i giudici che, secondo la norma del contratto collettivo, il diritto alla conservazione del posto opera, “in caso di infortunio, fino alla guarigione clinica comprovata col rilascio del certificato medico definitivo da parte dell’istituto assicuratore”: la valutazione circa la riconducibilità dell’evento morboso ad un infortunio sul lavoro è rimessa dalle parti collettive all’esclusiva competenza dell’INAIL, “di tal che il riconoscimento dell’infortunio costituisce un dato oggettivo, attestato formalmente dall’Istituto competente e rispetto al quale non possono opporsi valutazioni extragiudiziarie di natura contraria ancorché assunte in buona fede da una delle parti del rapporto”. Dunque il riferimento contenuto - nella citata disposizione collettiva - ai certificati definitivi dell’INAIL comporta che eventuali difformi valutazioni espresse dall’Istituto e dallo stesso successivamente smentiti in sede di accertamento definitivo, a seguito di ricorso amministrativo del lavoratore, non possono essere assunti a sostegno di un provvedimento (il licenziamento) solo perché adottato sulla scorta di una incolpevole, ma pur sempre erronea, rappresentazione di una realtà che lo legittimava. È infatti solo del datore la determinazione soggettiva di affidarsi all’eventualità che una decisione, assunta in via provvisoria dall’Istituto, divenga definitiva: è quindi “l’assunzione del rischio sull’incerto esito dell’attività amministrativa a fondare la colpa datoriale”.

A sostegno del proprio ragionamento la Corte d’Appello cita un precedente esaminato dal Supremo Collegio in una problematica simile, concernente la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 della legge n. 300/70: “Il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l’immediato licenziamento del dipendente anziché chiedere, secondo le normali regole, l’accertamento della sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce evidentemente a suo rischio perché non può ignorare che quella valutazione espressa dall’INAIL (…) non è incontrovertibile (…) restando del tutto irrilevanti le ragioni che hanno indotto la società ad adottare il provvedimento impugnato” (Cass. n. 420/98; conf. Cass. n. 10944/98; n. 17780/05). Il licenziamento viene quindi dichiarato illegittimo e la società condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento dei danni commisurati alla retribuzione globale di fatto omessa dal licenziamento alla reintegra, oltre interessi legali sulle somme rivalutate ed al pagamento delle spese legali per i due gradi del giudizio.